Fenice: la parodia di Manon Lescaut inaugura la stagione
Des Grieux, all’inizio dell’opera, vive ancora la condizione spensierata ed inebriante di un giovane che si affaccia alla vita, curioso di tutto ciò che essa può offrirgli. Manon gli si presenta con un lato della sua multiforme ed inconsapevole personalità, quello della ragazzina timida e sprovveduta che il fratello sta accompagnando in convento. Eppure il ragazzo già sperimenta dentro di sé la presenza di un fuoco sconosciuto (“Donna non vidi mai, simile a questa...”).
Nel secondo atto des Grieux compie un passo decisivo nel suo viaggio di iniziazione. Manon è diventata l’amante del ricco Geronte e vorrebbe tenersi i soldi di questi senza rinunciare all’amore appassionato dell’altro. Così cerca di fuggire insieme a des Grieux dalla casa del vecchio protettore con le tasche piene di gioielli, ma è arrestata dalle guardie. Des Grieux capisce che la ragazza è una deliziosa creatura inaffidabile (“Ah, Manon...sempre la stessa...”), ma, nello stesso tempo, si rende conto di non poter fare a meno di lei; inizia così, in una sorta di erotico cupio dissolvi, quella corsa verso l’abisso che conosce una tappa ulteriore nel terzo atto.
Qui, mentre le tinte orchestrali si fanno scure, meste, des Grieux sperimenta la sofferenza generata dalla carica distruttiva insita nell’amore di Manon. La ragazza sta per essere deportata come prostituta nelle Americhe quando il giovane, disperato al pensiero di non rivederla mai più, decide di compiere il proprio destino facendosi imbarcare come mozzo sul bastimento che sta per salpare.
Nell’ultimo atto, mentre la tinta di fondo diventa sempre più cupa, si ha la conclusione logica della vicenda. I due amanti fuggono nel deserto dopo che des Grieux ha affrontato un duello per difendere Manon, che alla fine muore per lo sfinimento della marcia affannosa e interminabile. Il ragazzo spensierato del primo atto è diventato adulto: ha vissuto il suo amore fino in fondo, ne ha pagato il prezzo più alto, il suo viaggio all’interno di se stesso si è concluso.
Giacomo Puccini trae il massimo partito da questa struggente vicenda d’amore e morte, narrata nel ‘700 dall’abate Prevost e già messa in musica da fior di musicisti come Auber e Massenet, donandoci quello che alcuni considerano il suo capolavoro. Al di là di sempre opinabili graduatorie di merito, si può affermare che Puccini, dopo le prove d’esordio a corrente alternata de “Le Villi” e di “Edgar”, in “Manon Lescaut” è per la prima volta assolutamente se stesso, cioè quel genio capace di reinventare il melodramma italiano del dopo Verdi, coniugando la sorgiva vena melodica latina con un’accentuata attenzione rivolta all’orchestra ed alle sue possibilità drammatiche. “Manon Lescaut”, che andò in scena al Regio di Torino il primo febbraio 1893 e cioè otto giorni prima del “Falstaff” di Verdi alla Scala in un ideale passaggio di consegne fra i due grandi, esprime la capacità della musica teatrale italiana di aprirsi all’Europa senza rinnegare se stessa, imboccando una nuova via ove la freschezza dell’ispirazione e la capacità di comunicare sentimenti ed emozioni si uniscono alla feconda consapevolezza delle acquisizioni della musica contemporanea.
Ma veniamo alla “Manon Lescaut” con cui la Fondazione La Fenice ha inaugurato la stagione d’opera 2010. Dal punto di vista musicale, con l’unica eccezione del soprano Martina Serafin nel ruolo della protagonista, si è visto molto dignitoso professionismo ma nulla di più.
La bacchetta di Renato Palumbo, maestro originario di Montebelluna, è parsa sicura ma talvolta pesante, con sonorità troppo fragorose, mentre dovevano essere meglio assecondati i momenti in cui la nostalgia, la sensualità e l’abbandono, che rappresentano la principale cifra emotiva della partitura, emergono con più evidenza, come nel preludio del terzo atto.
Martina Serafin, soprano viennese nonostante il cognome italiano, fa parte del Gotha dei cantanti lirici di fama internazionale. Se lo merita. La voce è sanissima, piena, rotonda, priva delle asprezze metalliche che contraddistinguono le voci di scuola tedesca od anglosassone che affrontano i ruoli da soprano lirico spinto o drammatico. Il timbro è bello, luminoso. La dizione è perfetta e le permette, insieme alla tecnica agguerrita, di dare peso ed espressione ad ogni parola; emblematico in queste senso è il quarto atto e soprattutto il celebre monologo “Sola, perduta, abbandonata”, in cui il soprano varia continuamente e con totale pertinenza drammatica colori, espressioni e dinamiche. A tutto questo si aggiungono la bellezza dell’artista e la sua abilità nel rendere sempre credibile sul piano teatrale l’impegnativo personaggio di Manon, dalla ragazzina gatta morta del primo atto alla donna disperata ma pur sempre attaccata alla vita del quarto.
Accanto a lei il tenore Walter Fraccaro si conferma, come des Grieux, il dignitosissimo e affidabile professionista che ben conosciamo. Peccato quel canto così spesso teso e spinto, quindi alla lunga monotono, perché Fraccaro è in grado di alleggerire l’emissione e donarci un’interpretazione più contenuta e rifinita, come alcuni momenti del terzo e quarto atto hanno dimostrato.
Il versante maschile è completato, nei ruoli principali, dal Lescaut del baritono di Rodi Dimitris Tiliakos, dal Geronte del basso pescarese Alessandro Guerzoni e dall’Edmondo (e lampionaio) del tenore barese Saverio Fiore. I primi due sono caratteristi sicuri e disinvolti, ma l’intonazione del primo non mi è parsa impeccabile, mentre il secondo accusa un’emissione alquanto ingolata e cavernosa. Saverio Fiore, infine, conferisce preciso e adeguato risultato ai non facili ruoli assegnatigli. Bene interpretati i ruoli cosiddetti minori (ma nessun ruolo è minore in teatro).
Dal solido professionismo, con la punta della Serafin, del versante musicale, al velleitarismo di quello teatrale. Lo spettacolo, realizzato dall’inglese Graham Vick per la regia e da Andrew Hays e Kimm Kovac per scene e costumi (coreografie di Ron Howell e luci di Giuseppe Di Iorio) conferma, infatti, quanto sia problematico nel teatro d’opera il passaggio dalla individuazione di una chiave interpretativa alla sua realizzazione teatrale. La distanza che separa l’idea astrattz dal palcoscenico, insomma, talvolta è apparentemente incolmabile.
La “Manon Lescaut” della Fenice, ad esempio, è restituita attraverso il ricorso insistente a trovate che non si sa se definire parodistiche o caricaturali. Il gruppo di studenti del primo atto diventa una classe di stolidi ragazzini indisciplinati che si divertono lanciandosi addosso palline di carta. Quindi l’ambiente scolastico si trasforma in una luna park, con tanto di giostra con cigni giganteschi (su cui fuggiranno i due amanti), di tiro delle palle su sagome viventi con cui si divaga des Grieux in attesa di Manon (vincerà un gigantesco orsachiotto rosa), di martello e colonnina per la prova di forza. L’elemento parodistico non manca neppure nel secondo atto, ove i Musici eseguono il madrigale che Geronte dedica a Manon con le teste infilate nelle sagome di putti barocchi, mentre, durante il sublime duetto Manon-des Grieux, cala dall’alto un’altalena con cui la ragazza si trastulla.
L’altalena la troviamo anche nel terzo atto, dove c’è ben poco da trastullarsi visto che Manon sta per essere deportata nelle Americhe come prostituta, mentre le sue compagne di sventura sono calate dall’alto imbragate come in una discesa a corda doppia dopo una scalata. E’ alla fine di quest’atto che si tocca il punto più basso di quello scollamento fra idea teorica e sua realizzazione teatrale cui si accennava. Sui sublimi accordi con cui Puccini saluta i due amanti in partenza per le Americhe, mentre des Grieux ha gettato ancora una volta la sua vita sulla roulette del destino per amore della capricciosa Manon e l’angoscia dell’ignoto si unisce alla speranza di una rigenerazione, i due giovani sono fatti oggetto di un assurdo lancio di coriandoli e stelle filanti. Una stella filante cadrà anche nel quarto atto, sulla salma di Manon, mentre – ecco un’intuizione interessante – i personaggi che rappresentano il suo passato la contemplano immoti dall’alto.
Ora, sembra evidente che i simboli giocosi ed infantili siano destinati a sottolineare l’irresponsabilità e l’immaturità dei due ragazzi, l’una avida di tutto ciò che la vita può offrire senza calcolarne le conseguenze, l’altro perso dietro il suo folle amore per Manon fino alla rovina di entrambi. Ecco, quindi, la fuga sulla giostra, l’orsachiotto gigantesco vinto al tiro a segno, l’altalena ecc. Ma se il concetto, cioè l’infantilismo dei due, è sicuramente una chiave di lettura attendibile dell’opera, altrettanto non può dirsi della sua realizzazione teatrale, che risulta ridicola e inadeguata. Il regista, che è uomo di teatro, non può accontentarsi dell’intuizione concettuale, ma deve sottoporre ad un attento vaglio critico i simboli e gli strumenti con cui può portarla in palcoscenico. Altrimenti, se è di infantilismo che si tratta, scelta la strada della parodia la si percorra fino in fondo, facendo tenere a des Grieux un ciuccio in bocca (naturalmente quando non canta) e mettendo in mano a Manon un sonaglino (naturalmente da agitare a tempo).
Lo stesso ragionamento vale per i coriandoli, che potrebbero rappresentare lo scherno della società nei confronti del sentimento dei due giovani o l’inanità e quindi, in ultima analisi, ancora l’infantilismo di tale sentimento. Ma, in quella situazione drammatica e con quella musica, hanno l’effetto di un rutto durante la lettura di una terzina dantesca: cioè un’inutile volgarità, che finisce per non rispettare né l’opera né il pubblico.
Non si vuole difendere, sia chiaro, la causa delle regie cosiddette tradizionali, alla Zeffirelli per intenderci, contro quelle innovative. La questione è un’altra. L’interpretazione, quella teatrale come quella musicale, deve essere uno strumento per cogliere, evidenziare e trasmettere allo spettatore il significato artistico e quindi umano di un’opera. Questo è ciò che fanno registi considerati di avanguardia come il nostro Michieletto, ma anche Carsen, Nekrosius ed altri. Questo è ciò che non riesce nella Manon Lescaut della Fenice a Graham Vick, la cui regia è una realizzazione artistica a sé, che non serve l’opera per metterne in evidenza i significati anche più remoti e meno tradizionali, ma si sovrappone ad essa e se ne serve per proporsi come manifestazione artistica autonoma.
Alla domenicale cui si riferiscono queste note caldo successo, con punte di particolare entusiasmo per Martina Serafin.
Adolfo Andrighetti