Dal riso elettronico di Maderna al pianto umano di Didone
Al centro della vicenda giganteggia il personaggio di Didone, che esprime il proprio dolore con accenti di una nobiltà raccolta che raggiungono l’apice espressivo nel commiato finale e soprattutto nella commovente invocazione, rivolta però alla confidente Belinda e non ad Enea già uscito di scena, “Remember me”.
Accanto a lei Enea è una spalla sbiadita, pronto ad abboccare all’amo lanciatogli dallo spiritello maligno che gli appare in forma di Mercurio e lo convince a partire immediatamente per adempiere alla volontà di Giove. E la sua repentina decisione, di fronte alla dignitosa sofferenza di Didone, di rimanerle accanto obbedendo ad Amore anziché a Giove, non fa che confermare la sua indole incerta e inaffidabile; un piccolo borghese più che un eroe epico. Didone, infatti, regina e donna insieme senza che un aspetto della sua personalità prevalga sull’altro e lo renda meno vero, non si lascia incantare dalla resipiscenza del suo innamorato e lo congeda: chi ha deciso una sola volta di abbandonarla ha perso ogni credibilità.
L’antica vicenda, un archetipo reso immortale dalla poesia di Virgilio, viene involgarita, nel testo scritto da Nahum Tate, con l’aggiunta dell’elemento magico. Sono le streghe, infatti, a ordire l’inganno che indurrà Enea ad abbandonare Didone e condurrà la regina al suicidio. Il ricorso a questo stratagemma per giustificare gli eventi banalizza, se vogliamo, il dramma virgiliano, che, dal sublime del contrasto fra i più nobili sentimenti umani ed una volontà superiore che li contraddice, viene abbassato al livello di uno scherzo feroce ma anche grottesco che le streghe giocano a Didone per odio nei confronti di lei. Tuttavia, come Purcell certamente aveva compreso, l’innesto conferisce vivacità e colore, sul piano musicale e drammatico, ad un’opera la cui tinta altrimenti sarebbe troppo uniforme e tendente al grigio.
La completa responsabilità teatrale del nuovo allestimento di “Dido and Aeneas” messo in scena alla Fenice, è stata opportunamente affidata, data l’incisiva ed ampia presenza delle danze all’interno dell'opera, al poliedrico coreografo e danzatore giapponese Saburo Teshigawara, che ne ha fatto un suggestivo ma lugubre lamento funebre: immersa nel buio la scena, nonostante le luci che illuminano il fondale di blu (l’acqua, il cielo, secondo Teshigawara) o di rosso mattone (il lato oscuro dell’animo umano); neri tutti i costumi senza alcuna variazione cromatica...Insomma, la vicenda non è narrata secondo un’evoluzione dinamica ma è fissata una volta per tutte all’interno di una funerea concezione psicologica e teatrale, dominata sin dall’inizio dalla presenza sovrana della morte. Una scelta che non manca di fascino ed è corente con il carattere dell’opera, considerata anche la sua brevità.
Le coreografie, invece, danno talvolta l’impressione di giustapporsi se non di sovrapporsi alla musica, esprimendosi attraverso un linguaggio gestuale disarticolato e nevrotico, a scatti apparentemente incontrollati, che, se raggiunge livelli parossistici e quasi parodistici nell’antro delle streghe, è tuttavia presente in maniera più o meno accentuata durante l’intero spettacolo. Il contrasto con la nobile e composta intensità degli accenti di Purcell è particolarmente evidente.
Sul podio Attilio Cremonesi, grazie ad un gesto di chiarezza che definiremmo didattica se questo attributo non potesse essere interpretato come un limite, concerta al meglio un’orchestra che dimostra la sua duttilità passando con ottimi risultati in poche settimane da Puccini a Purcell, un coro sempre più compatto e brillante (maestro Claudio Marino Moretti), una compagnia di canto di buona professionalità.
Il soprano svedese Ann Hallenberg, già apprezzata alla Fenice qualche mese fa come Agrippina nell’omonima opera di Haendel, sa restituire con consapevolezza stilistica, emissione omogenea e ben proiettata, fraseggio vario e sfumato, l’eterno dolore della principessa di Cartagine. Il suo Enea, il tenore USA Marlin Miller, è semplicemente perfetto, perché, con il suo fisico aitante e la sua voce incolore, rappresenta con fedeltà le caratteristiche del personaggio come emergono da musica e libretto. Professionale il contributo degli altri interpreti, con una menzione particolare per il soprano napoletano Maria Grazia Schiavo nel ruolo di Belinda.
La rappresentazione di “Dido and Aeneas” è stata preceduta dalla esecuzione di un breve pezzo per nastro magnetico di Bruno Maderna intitolato “Le rire”, ridere. I rumori elettronici cui dà vita l’indimenticato musicista veneziano richiedono un completamento sul piano teatrale per poter uscire dall’autoreferenzialità e diventare comunicativi. Quindi è sicuramente lodevole l’idea di accompagnarli con una coreografia, che trasformi una sperimentazione sonora di una ventina di minuti in uno spettacolo che parli al pubblico. Ne emerge l’eccellenza dei danzatori della compagnia KARAS di Tokyo fondata dallo stesso coreografo Teshigawara, ma il loro stile espressivo, basato su gesti frenetici e a scatti che ognuno compie per proprio conto, non sembra richiamare né evocare adeguatamente la tematica del pezzo di Maderna. La sensazione, invece, è di assistere ad una rappresentazione della consueta e risaputa alienazione dell’uomo contemporaneo, della sua incapacità di relazionarsi con gli altri e di mettere a fuoco una propria identità razionale e positiva. In questo senso, l’”esplosione nella bocca e il torrente nel corpo” di cui scrive Teshigawara per illustrare poeticamente il riso e quindi il balletto che ad esso si ispira, non sembra produrre effetti liberanti ma solo una nevrosi collettiva. A meno che l’abbraccio che conclude il balletto non voglia proprio rappresentare la riscoperta in extremis, grazie al riso, di una dimensione umana di comunicazione che infrange il solipsismo dominante fino ad un attimo prima.
Alla domenicale cui si riferiscono queste note, applausi educati dopo Maderna, caldi e convinti al termine dell’opera.
Adolfo Andrighetti
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