Fenice: un Don Giovanni sulfureo e maledetto
Quanto si è scritto su questo personaggio, in cui si è incarnato l’archetipo del seduttore trasgressivo, voluttuosamente attratto dalla conquista sessuale ma anche dalla violazione dell’ordine stabilito! In lui, infatti, convivono due anime, reciprocamente funzionali l’una all’altra: quella dello schernitore di tutto ciò che per gli altri ha valore, da cui l’epiteto di “burlador” che gli attribuisce Tirso de Molina sin dal titolo del dramma (“El burlador de Sevilla”) che conferì dignità letteraria e gloria universale al personaggio; e quella dell’erotomane attratto irresistibilmente dall’usa e getta sessuale.
Il Romanticismo ha adottato don Giovanni, vedendolo come un eroe della libertà individuale affermata con protervia quasi disperata contro la società che ne ha paura e vorrebbe costringerla entro i propri schemi. Ma se raffreddiamo i toni un po’ febbricitanti che caratterizzano talvolta quella cultura, ci rimane davanti un esemplare umano molto più modesto: un consumatore di sesso tragicamente coartato alla ripetizione seriale degli stessi comportamenti, chiuso in un egocentrismo infantile e autoreferenziale che gli impedisce di entrare con gli altri in una relazione autentica, basata sul reciproco riconoscersi come persone. Al rapporto interpersonale maturo e gratificante don Giovanni mostra invece di preferire il suo universo autoerotico centrato sull’adorazione di se stesso e costruito sulla fantasia: tant’è vero che il burlador passa l’intera opera di Mozart ad inseguire coiti che non riesce a concludere; un’impotenza che relega la sua ossessione copulatoria nel mondo dei sogni, delle fantasie adolescenziali, ove le appartenenti all’altro sesso sono viste come oggetto di piacere e non come persone da incontrare, conoscere, capire nella loro globalità.
Se tutto questo è vero, allora non vi è dubbio che in questa figura di libertino ipercinetico, in continuo movimento da un luogo all’altro e da un piacere all’altro forse per fuggire a se stesso, vi è una connotazione tragica, un dibattersi continuo e ripetitivo contro le sbarre di una prigione che egli stesso si è creato e che assomiglia al volo di una falena (simbolo proposto anche dalla regia di Michieletto alla Fenice), che va e viene continuamente verso la fonte di luce da cui è attirata. Questa dimensione fatale e dolorosa del personaggio viene colta ed espressa nell’opera mozartiana, ove la commedia e addirittura il comico trascolorano spesso, pur rispettando uno straordinario equilibrio formale, verso toni cupi e drammatici. E l’originalità del capolavoro risiede anche nella capacità di Mozart di giocare, grazie al suo estro geniale di affabulatore e con esiti di stupefacente felicità musicale, su tutti i registri possibili, dal buffo al tragico passando per ogni gradazione intermedia, dando vita così ad un dramma che può ben definirsi universale.
Un dramma che ha avuto una realizzazione di entusiasmante anche se talvolta di sovrabbondante vitalità teatrale alla Fenice grazie all’enfant prodige della regia operistica, il veneziano Damiano Michieletto, che ci ha trascinati tutti in un’avventura straordinaria a contatto con un mondo ricco di vita, di emozioni, di significati. Si sa, Michieletto e la routine sono due termini che si escludono a vicenda, mentre la cifra di questo talentuoso regista è data dal fuoco d’artificio di idee mai fine a se stesse, bensì tutte al servizio di una coerente concezione del dramma e di un profondo rispetto delle esigenze del teatro.
Nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Michieletto dichiara:”...ho deciso di non attualizzare la vicenda in un altro contesto, ma di riflettere sul momento in cui l’opera è stata scritta e approfondire le complesse relazioni tra i personaggi”. E’ ciò che effettivamente avviene sul palcoscenico della Fenice, ove il regista, insieme a Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Luca Scarzella per la regia video, Fabio Barettin per le luci, dà vita ad uno spettacolo di impressionante energia teatrale e insieme di ammirevole lucidità concettuale.
La vicenda è ambientata in un universo notturno, illuminato solo da candele (quasi a sottolineare che don Giovanni rappresenta il lato oscuro, istintuale, di ciascuno di noi), circoscritto dalle pareti eleganti ma fredde, vagamente cimiteriali, di un palazzo nobiliare. Queste severe paratie ruotano spesso su se stesse, a rappresentare la mancanza di punti di riferimento anche spaziali, lo straniamento e lo stordimento, che colpiscono tutti coloro che don Giovanni trascina nel suo vortice vitale. Ma il movimento è solo apparente. Le scene ruotano spesso ma finiscono per riproporre la stessa ambientazione, il medesimo décor, a simboleggiare la fondamentale staticità dell’universo di don Giovanni, il cui agitarsi ipercinetico lo porta soltanto ad avvitarsi sempre più velocemente su se stesso.
All’interno di questa ambientazione così singolare e pertinente si scatena un mondo di azioni e reazioni, di intenzioni e relazioni, che è impossibile analizzare nel dettaglio, tale è la ricchezza e la genialità del lavoro che Michieletto, secondo suo prezioso costume per il quale gli siamo grati, conduce prima sui personaggi dell’opera e poi sugli interpreti.
Don Giovanni è perennemente agitato da un’ansia di movimento febbrile e frenetica che non gli dà mai requie e che diventa sempre meno controllata via via che l’opera procede. Il burlador è come l’accumulatore di un’energia parossistica ed irresistibile che si scarica su quanti lo circondano, animandoli di una vitalità che altrimenti non avrebbero. Gli altri lo detestano, tutti, perché ne subiscono il gioco infernale e si rendono conto di esserne travolti in un vortice di follia distruttiva; ma non ne possono fare a meno, è come un potente allucinogeno che amplia la loro esperienza esistenziale verso un orizzonte di luci e colori e piaceri che altrimenti non potrebbero mai raggiungere. Si sa, lucifero era il più bello degli angeli, il portatore della luce, e la sua assoluta malvagità non ne diminuisce il fascino.
Così Zerlina canta “Vedrai carino” pensando a don Giovanni, la cui immagine evoca ed accarezza con la fantasia mentre con le parole si rivolge al suo promesso sposo. Così donna Anna, dopo che don Giovanni è entrato nella sua vita seppure nella maniera traumatica e violenta che sappiamo, non è più capace di una relazione normale con il fidanzato, il debole e svirilito don Ottavio, che, mentre canta “Il mio tesoro intanto” e minaccia “stragi e morti”, non riesce ad uscire all’esterno perché le porte gli resistono, a rappresentare la velleità e anche la vacuità del suo eroismo solo verbale. La dinamicità, per quanto disperata e patologica, di don Giovanni, evidenzia agli occhi di donna Anna il grigiore del suo rispettabile fidanzato, cui la ragazza non potrà più avvicinarsi in spontaneità. E quando, nel finale, donna Anna chiede a don Ottavio un altro anno di riflessione prima del matrimonio, non fa che sancire un raffreddamento di rapporti già manifestatosi in precedenza. E’ lo stesso finale ove don Giovanni, che dovrebbe essere già finito all’inferno, riappare per scompigliare l’ordine che si sarebbe dovuto ricostituire dopo la sua morte e per affermare ancora una volta il suo potere sugli altri personaggi, che, mentre stanno cantando la loro morale, ad un suo gesto cadono tutti a terra come fulminati.
Leporello, naturalmente, dipende da don Giovanni come e più degli altri. Michieletto lo vuole balbuziente, ma non per ricalcare lo stereotipo del servo sciocco della commedia dell’arte, ché in questo Leporello non vi è nulla di superficialmente buffonesco. In lui la balbuzie è il segno di un’umanità semplice e complessata, tenera e indifesa; un handicap che ne sottolinea la fragilità di essere umano disarmato di fronte alle ribalderie del padrone, per le quali prova autentico ribrezzo e di cui intuisce la carica distruttiva, ma delle quali è pronto ad approfittare da povero diavolo per ubriacarsi o per palpeggiare qualche corpo femminile. Il suo dramma è che a quel padrone, che gli ripugna, lui si sente legato da un cordone ombelicale che non riesce a spezzare. Indimenticabile è l’aria del Catalogo, che diventa, in questa logica, l’inquietante rivelazione di una patologia e, insieme, l’ammissione da parte di Leporello di una oscura complicità che lo tiene unito suo malgrado a questa figura oscena ed affascinante nello stesso tempo. Insomma, una creazione di assoluto valore culturale e teatrale, che non sarebbe stata possibile, va detto subito, senza l’arte del trentacinquenne basso bergamasco Alex Esposito, un Leporello da pelle d’oca per l’intensità drammatica e quindi la verità umana che riesce ad immettere in ogni gesto, in ogni espressione facciale, pur senza alterare mai la precisa linea di canto e compromettere la pienezza del timbro rotondo, bello, omogeneo. Un capolavoro del teatro musicale contemporaneo.
Accanto a lui il baritono austriaco Markus Werba sa essere quel don Giovanni elettrico, sulfureo, inarrestabile ed inafferrabile, che il regista gli chiede. Regge il ruolo impegnativo sul piano vocale, nonostante a tratti si richiederebbe uno strumento più potente, più pastoso. Peccato cada sul “Deh vieni alla finestra”, eseguita, tranne che nell’attacco della seconda strofa, con piglio quasi verista da baritono “vilain”; in quel momento si è avvertita la mancanza di una voce latina, capace di accarezzare con la dovuta dolcezza e morbidezza, pur senza sdilinquirsi, la parola cantata e dare quindi il giusto risalto a questa insinuante serenata, carica di tutti i profumi e la sensualità di una notte a Siviglia.
Il tenore USA Marlin Miller, don Ottavio, piace per la linea di canto precisa, sfumata eppure virile con cui esegue le sue due arie. Il coreano Attila Jun è un eccellente Commendatore: un autentico basso profondo dalla voce non cavernosa o rugginosa, ma bella, timbrata, potente eppure morbida. Da risentire. Peccato per lui che Michieletto, che dichiara di non capire la presenza dell’elemento soprannaturale nel “Don Giovanni”, non raccolga la sfida di trovare un significato a ciò che pure Mozart e da Ponte hanno voluto e rinunci a tentare, su questo personaggio, quello scavo che, condotto sugli altri, ha portato a risultati entusiasmanti. Da risentire, ma per ragioni diverse, anche il giovane baritono spagnolo Borja Quiza, un Masetto che ha bisogno di studio e maturazione.
Sul versante femminile, nel confermare l’eccellente presenza scenica e l’encomiabile diligenza teatrale di tutte le interpreti, si dovrà segnalare in primo luogo la classe del soprano Carmela Remigio, donna Elvira appassionata e furente, dal fraseggio sempre variato, dalle irresistibili accensioni vocali; un’altra vittima di don Giovanni, dal quale non riesce a staccarsi pur nella consapevolezza che si tratta di un legame mortifero. Pienamente riuscite, nella valorizzazione del versante belcantistico dei rispettivi ruoli, anche le interpretazioni del soprano polacco Aleksandra Kurzak come donna Anna e del soprano greco Irini Kyriakidou come Zerlina.
Tutti gli interpreti vocali e strumentali sono guidati con sicurezza dal maestro concertatore e direttore Antonello Manacorda, che, dopo un’ouverture caratterizzata da tempi serrati, concisi e da un piglio drammatico che ne fa il vero preludio di un dramma di amore e morte, trova un misurato equilibrio nel corso della esecuzione, fra l’abbandono dei passi più lirici e l’accensione passionale di quelli più vicini alla sensibilità romantica.
Alla matinée cui si riferiscono queste note successo caldissimo per tutti.
Adolfo Andrighetti
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