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La cerimonia dell’innocenza è sepolta

06/07/2010
“The ceremony of innocence is drowned”: questo verso di Yeats è stato giustamente preso in prestito da Benjamin Britten e Myfanwy Piper, autori rispettivamente della musica e del libretto dell’opera “The turn of the screw” (Il giro di vite) in scena alla Fenice, in quanto, messo in bocca ai due spettri corruttori protagonisti della vicenda, ne esprime, con un tocco di dissacrante ed asciutta ironia tipicamente britannica, il significato essenziale.

Va detto che il tema dell’innocenza insidiata o addirittura violata attraversa tutta la produzione operistica di Britten, il quale, musicista tanto limpido nei suoi percorsi musicali quanto tormentato nella sua struttura psicologica, ne è nello stesso tempo respinto ed attratto, specie quando assume la forma della prevaricazione o della seduzione omosessuale operata nei confronti di un soggetto più debole. E’ questo il tema di “Billy Budd”, ove il marinaio che dà il titolo all’opera, cuore semplice e puro come quello dell’idiota di Dostojewsky, cade vittima dell’odio del mastro d’armi Claggart, che lo concupisce per la sua bellezza, ma, offeso e ferito dal suo candore immacolato, finisce per farlo condannare a morte ingiustamente.

Ma anche in “Peter Grimes”, a ben vedere, questo tema si ripresenta. Il rapporto, rude fino alla violenza, che il pescatore instaura con i suoi apprendisti quasi bambini, sembra derivare da una sorta di insofferenza verso la loro età indifesa, verso quella loro fragilità così tenera e così facilmente violabile; un’insofferenza che sembra nascondere un’inconscia attrazione sessuale non esprimibile se non attraverso l’aggressività.

In “Death in Venice” i rapporti di forza sono invertiti: il seduttore, di acerba consapevolezza, è l’adolescente Tadzio; la vittima, trascinata nel gorgo di un’irresistibile attrazione erotica, il maturo e dignitosissimo scrittore Aschenbach. Eppure lo schema dell’innocenza insidiata rimane: il ragazzo la incarna con la sua bellezza e la sua purezza ancora intatta che l’uomo vorrebbe violare.

In “The rape of Lucretia”, poi, è superato lo schema omosessuale ma non quello dell’innocenza contaminata, dal momento che vi si racconta la triste vicenda dello stupro di una sposa fedele e virtuosa.

In “The turn of the screw”, infine, rappresentato in prima assoluta proprio alla Fenice il 14 settembre 1954 e tratto dall’omonimo romanzo breve di Henry James, la storia è imperniata sull’opera di depravazione condotta su due fanciulli, fratello e sorella, da una coppia di domestici. Questi, dopo la loro morte, non sanno staccarsi dalle loro due piccole vittime, che vogliono avviluppare sempre più morbosamente a sé; compaiono quindi nell’opera sotto forma di fantasmi.

In questo malsano groviglio l’aspetto più inquietante non è rappresentato dal potere omoerotico con cui soprattutto il domestico Quint ottiene la soggezione del fanciullo Miles; o dal fatto che l’influenza nefasta dei due diabolici servitori è stata così sottilmente seducente che, nonostante la loro morte, i due bambini non riescono a liberarsene ritrovando la pace. Ciò che crea il maggior disagio, invece, è la constatazione che l’innocenza corrotta è diventata complice dei corruttori e non ne può più fare a meno. Solo nell’epilogo, grazie all’intervento dell’Istitutrice impegnata nel corso dell’intera opera in un’estenuante ed inane lotta contro il male per proteggere i fanciulli, Miles riacquisterà quella libertà che Quint era riuscito a sottrargli e gli dirà in faccia “You devil!”; ma sarà solo per morire subito dopo.

Dalla torbida vicenda Britten trae il massimo partito, dando vita, con un’orchestra di dimensioni cameristiche, ad un’opera dalle atmosfere musicali sottili e raffinate, ambiguamente affascinanti, che Franco Abbiati definisce come “una miniera di trovate luccicanti e serpigne”. Attraverso particolari impasti sonori il musicista crea un’atmosfera ambigua, sospesa, incantata, in cui i confini tra fiaba e incubo, fra purezza e corruzione, sono sempre più labili. Britten sembra scorgere il germe di depravazione nascosto nell’innocenza e restarne affascinato.

“The turn of the screw” ha avuto nei giorni scorsi una splendida esecuzione alla Fenice, ove era nata il 14 settembre 1954, grazie alla analitica eppure appassionata direzione e concertazione di sir Jeffrey Tate e alla piena collaborazione fornitagli da una dozzina di bravissimi professori dell’orchestra del Teatro. Il maestro inglese, considerato il massimo interprete odierno della musica di Britten, alla metafisica delle emozioni rarefatte sembra preferire la fisica delle passioni reali, e dà vita, con il suo gesto quasi scolastico eppure così eloquente, ad un’esecuzione non solo limpida e trasparente come suo solito, ma anche molto teatrale e comunicativa, lontana dalle cerebralità che questo repertorio potrebbe suggerire. Si ha la sensazione che Tate, seguendo questa impostazione, depuri la drammaticità del Turn dalle sue componenti più malate, per restituirla ad una dimensione non meno intensa ma più concreta e più umana, culturalmente vicina al romanticismo piuttosto che al decadentismo.

Su questa strada il maestro inglese è pienamente assecondato dalla eccellente compagnia, che non rinuncia mai a cantare nel senso più proprio del termine né ad interpretare attraverso il canto; dall’ottima Istitutrice del soprano australiano Anita Watson, di schietto e comunicativo lirismo, capace di mettere carne e sangue nelle angosce del personaggio; allo splendido Quint (e Prologo) del tenore USA Marlin Miller, già ammirato alla Fenice come Aschenbach di “Death in Venice”, sempre di Britten, e, poche settimane fa, come don Ottavio del Don Giovanni mozartiano. Miller si distacca opportunamente dal modello proposto dal creatore del ruolo, Peter Pears. Quanto, infatti, quest’ultimo risulta, all’ascolto dell’incisione discografica, astratto e disincarnato, tanto il Quint di Miller non teme di esprimere una seduttività carnale, passionale, grazie anche ad uno strumento bello, sano, sonoro, adoperato con intelligenza ma anche senza lo sciocco timore di usare, quando la cantabilità britteniana lo richieda, “troppa voce”.

Che brave anche le due voci bianche! E sia detto senza la condiscendenza che talvolta si adopera verso gli artisti fanciulli ma con tutta la serietà richiesta da una valutazione critica. Eccellente soprattutto il Miles dell’undicenne Peter Shafran, mentre la Flora della dodicenne Eleanor Burke, se accusa qualche sonorità asprigna rispetto al fratello (ma come dovrebbe cantare una bambina, che oltretutto, nella finzione, ha di certo meno dei dodici anni dell’interprete?), non gli è da meno nella sicurezza e nella efficacia della presenza in scena. Perfettamente in parte anche le due cantanti, entrambe inglesi, che hanno dato vita alla bonaria governante Mrs Grose, sballottata dagli eventi, e all’altro fantasma, Miss Jessell, anch’essa vittima, in vita, dell’oscuro potere seduttivo di Quint: sono, rispettivamente, il mezzosoprano Julie Mellor ed il soprano Allison Oakes.

Meno riuscita della parte musicale sembra quella scenica, dovuta a Pier Luigi Pizzi; e non perché vi si possano ravvisare mende particolari, ma perché non convince né avvince del tutto, non staccandosi da una convenzionalità corretta ma scarsamente incisiva. La scena è imperniata su di una asettica e rigida concezione geometrica, sia nella sala del castello, disegnata dall’incrociarsi di linee rette verticali ed orizzontali, sia nel parco, contrassegnato dalla algida presenza di svettanti cilindri argentei che rappresentano gli alberi. La presenza del lago e dell’acqua sul fondo della scena, poi, è più immaginata che realmente veduta, almeno per il pubblico della platea. Il lavoro registico sui personaggi non sembra andare oltre una correttezza di routine. Né i toni del grigio e del nero che contraddistinguono la scena e i costumi possono affrancare lo spettacolo da una sensazione di monotonia ed uniformità.

Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, successo cordialissimo e meritatissimo per tutti gli esecutori e gli interpreti.

Adolfo Andrighetti

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