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Fenice: ancora “Traviata” ma ogni volta è come la prima

13/09/2010
Il romanzo di Alessandro Dumas figlio “La signora dalle camelie”, da cui fu tratta, attraverso la mediazione del dramma teatrale scritto qualche anno dopo, l’opera di Verdi e Francesco Maria Piave “Traviata”, è immerso nelle atmosfere letterarie e psicologiche del romanticismo. La descrizione degli stati d’animo degli innamorati Armando e Margherita (l’Alfredo e la Violetta dell’opera) rappresenta, infatti, la parte più ampia e significativa del romanzo, che trova accenti commossi e commoventi nel racconto dell’abnegazione di Margherita verso l’amato e non manca di efficacia neppure nella descrizione delle emozioni contrastanti che mettono in agitazione il cuore di Armando. Quando poi la malattia diventa una presenza sempre più invadente nella vita della donna, allora l’atmosfera romantica si accentua ulteriormente. Malattia e morte diventano il segno esteriore del percorso catartico compiuto dalla mondana redenta, che, attraverso l’amore vero per un uomo, scopre la gioia del donare e del donarsi e quindi compie il sacrificio supremo rinunciando a tale amore per non creare problemi a Duval padre (il Germont dell’opera) e alla figlia. Rinuncia così di fatto a se stessa e alla propria vita, che riacquista senso e valore nel momento in cui viene sacrificata.

Se il binomio romantico amore-morte ispira a Dumas figlio le sue pagine migliori, è anche vero, però, che il romanzo presenta un’altra componente, più enunciata come programma che risolta sul piano letterario, eppure significativa perché spesso ispira le moderne regie dell’opera verdiana. Si tratta dell’intento quasi sociologico di svelare la durezza e l’indifferenza di quel brillante mondo parigino che, verso la metà dell’800, si compiaceva di frequentare mondane d’alto bordo e mantenute, godendone le grazie finché erano giovani e piacenti per poi abbandonarle a loro stesse. Lo sfruttamento, come ovvio, era reciproco. E come si capisce dal romanzo, che in piena epoca romantica anticipa almeno nelle intenzioni il filone verista di denuncia sociale, le ragazze più charmant conducevano un’esistenza libera e lussuosa alle spalle dei loro munifici protettori. Eppure, fra le due categorie, è intuibile quale fosse la più debole; è quella verso cui andavano le simpatie di Dumas figlio, che, sin dalle prime pagine, manifesta i suoi sentimenti di compassione e solidarietà verso le prostitute di lusso e di disprezzo verso i ricchi gaudenti.

L’indignazione alquanto velleitaria di Dumas figlio diventa, nelle mani di Robert Carsen, una spietata lente di ingrandimento puntata sulle miserie morali del bel mondo di oggi. L’allestimento di “Traviata” del regista canadese, riproposto con regolarità alla Fenice dopo aver inaugurato nel 2004 il teatro ricostruito, coglie con esattezza da tavolo anatomico quanto di malato c’è nel demi-monde di cui Margherita/Violetta è regina, lo porta ai nostri giorni e ce lo restituisce con un’efficacia violenta, livida e crudele. La nausea esistenziale che impregna questo ambiente notturno, sfatto dall’alcool e dalla droga, trova in Carsen un analista preciso ed implacabile, impietosamente calato sui suoi sbandati d’alto bordo come un entomologo sui suoi insetti.

Il grande demiurgo della parte musicale è il maestro coreano Myung-Wung Chung, direttore geniale e attento concertatore, protagonista di una performance memorabile. Ci restituisce una partitura ora smagliante di tinte vivide e lucenti, ora dolente di una mestizia assoluta e senza squarci di speranza, ora agitata da una concitazione febbrile e nevrotica che mette i brividi. Ci si gode, così, una Traviata intensa ed emozionante, come restituita ad una sua forza primigenia che una certa routine aveva ricoperto di strati di polvere sempre più spessi. L’orchestra della Fenice segue il maestro ormai ad occhi chiusi ed il risultato è strepitoso e commovente insieme.

Sul palcoscenico il soprano Patrizia Ciofi è sempre più Violetta, sempre più padrona del ruolo, in cui si immerge con grande dispendio di energie fisiche e psicologiche, con il suo fisico minuto, nervoso eppure sensuale ed una vocalità ormai totalmente in grado di adeguarsi alle molteplici esigenze della parte.

L’artista è signora assoluta delle colorature del primo atto, che rende ora con nevrotica sovreccitazione, ora con un senso di estenuato languore. L’interpretazione cresce di intensità e di forza emotiva con il procedere della vicenda. L’”Amami Alfredo”, per esempio, è commovente per l’empito raccolto e insieme eloquente dei sentimenti; e con un “Addio del passato” da pelle d’oca, cesellato, accarezzato, sofferto sillaba dopo sillaba, si raggiunge quel culmine in cui l’arte è più vera della vita, perché ne coglie l’essenza con assoluta forza di sintesi e la restituisce purificata. Si aggiunga che anche il volume ridotto non è un limite, perché la voce corre ugualmente per tutto il teatro grazie all’impostazione tecnica ineccepibile.

Fanno corona alla regina l’Alfredo del tenore siciliano Roberto De Biasio, robusto ma lodevolmente attento a cercare un canto dalle dinamiche più attenuate, anche se si gradirebbe, di tanto in tanto, un’emissione più morbida, più sul fiato, ad evitare alcune forzature soprattutto in zona acuta. E ancora il Germont del baritono di Tavullia (Pesaro) Davide Damiani, dallo strumento non imponente ma di bell’impasto timbrico, solidamente appoggiato su di un’emissione omogenea che garantisce un’apprezzabile compattezza di suono. Efficaci le voci gravi dei baritoni Elia Fabbian e Armando Gabba e del basso-baritono Luca Dall’Amico, rispettivamente il barone Douphol, il marchese d’Obigny, il dottor Grenvil. Come sempre inappuntabili il soprano Sabrina Vianello (Annina) e il tenore Iorio Zennaro (Gastone).

Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note successo molto caldo per tutti e soprattutto per Patrizia Ciofi e Myung-Whun Chung.

Adolfo Andrighetti

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