Un demiurgo ci conduce per mano alla riscoperta di Rigoletto
La doppia personalità di Triboulet si riflette anche nell’aspetto fisico. Il suo essere gobbo e deforme, infatti, è funzionale al ruolo, che riveste alla corte del re, di sardonico dispregiatore di ogni legame e di ogni valore umano, mentre contrasta con la nobiltà dei sentimenti che nutre come padre.
Ma l’ambiguità esistenziale, pur rappresentando una condizione ineliminabile della natura umana, può portare, se non è ricomposta in una coerenza complessiva, a conseguenze distruttive sulla persona. Non si può essere, insomma, il beffardo consigliere delle peggiori nefandezze e, insieme, il padre colmo di bontà e di attenzioni. Così il genitore dovrà subire prima il disonore della figlia, vittima di quelle forze che egli stesso ha contribuito a scatenare sotto il costume da giullare; poi la morte della stessa, da lui indirettamente provocata per insaziabile desiderio di vendetta.
Un genio, dunque, Victor Hugo, che in Triboulet ci dona una delle figure più forti del teatro di ogni tempo. Ma un genio ancora più originale Giuseppe Verdi, che intuisce immediatamente le potenzialità di un personaggio che fa dell’ambivalenza la sua cifra distintiva; ed è affascinato dalla forza drammatica sprigionata da un corpo infelice che custodisce un sentimento così esclusivo ed umano anche in quanto di morbosamente possessivo vi si può ravvisare.
Verdi, servito in maniera eccellente dall’intuito teatrale e dal mestiere del librettista muranese Francesco Maria Piave di cui si ricorda il bicentenario della nascita, si mantiene fedele allo svolgimento dei fatti narrati da Hugo. Nello stesso tempo, però, grazie anche alla sinteticità e all’immediatezza comunicativa del linguaggio musicale, li arricchisce di un’intensità drammatica ed una verità umana che il drammaturgo non raggiunge. Fra i diversi esempi che si potrebbero portare, si pensi al groviglio di emozioni che agita il Duca quando non trova più Gilda e che egli esprime nel recitativo “Ella mi fu rapita”, seguito dall’aria “Parmi veder le lagrime” con il suo andamento lento e sentimentale e dalla trascinante cabaletta “Possente amor mi chiama”. Il pezzo, infatti, al di là della sua struttura convenzionale, esprime un’emozione sincera, un turbamento inusitato nell’animo del duca, che scopre con Gilda la vera dimensione dell’amore. E’ soltanto una parentesi nella “carriera del libertino”, che, una volta consumato l’amplesso con la ragazza, supererà senza rimorsi quel momento di debolezza per riprendere a praticare il suo “usa e getta” sessuale. Tuttavia è un tocco di verità umana che manca al re di Hugo, sempre fedele, se si vuole anche in maniera monotona, al suo cliché di gaio libertino pieno di salute e povero di dubbi.
Magico demiurgo del “Rigoletto” rappresentato alla Fenice è stato ancora una volta il maestro coreano Myung-Whun Chung, capace come già in Traviata, seppure con esiti questa volta meno scontati, di affascinare e stupire. Il suo è un “Rigoletto” del tutto personale, lontanissimo non solo dalla routine ma anche dalla tradizione più consolidata. Il maestro riscopre la dimensione sinfonica dell’opera, mettendo in grande evidenza l’armonia e l’orchestrazione, senza trascurare, per questo, le ragioni del canto. Ne esce un affresco sonoro dai colori vividi e intensi, ove tempera ed olio prevalgono sul pastello; colori ottenuti con dinamiche spesso sostenute e con tempi talvolta dilatati, ma anche esaltando e riportando a nuova vita, come se fossero eseguiti per la prima volta, quegli accompagnamenti che talvolta subiamo come il prezzo inevitabile per goderci l’involo melodico, questo sì musica. E invece no. Chung ci dimostra che anche gli accompagnamenti verdiani, quelli triti, un po’ volgarotti, sono musica e possiedono un senso ed un’evidenza drammatica. Impressionanti, poi, certi crescendo, come quello del preludio, da lui restituiti con una forza musicale irresistibile che si trasforma attimo dopo attimo in energia fisica ed emotiva per chi ascolta. Da mozzare il fiato.
Il cast si lascia condurre dal demiurgo con esiti complessivamente molto positivi. Il navigato baritono romano Roberto Frontali è un protagonista assai suggestivo per la presenza scenica stanca e un po’ goffa, sottolineata dai moderni abiti da cerimonia e dal viso imbiancato da vecchio clown triste. E’ un Rigoletto vinto prima ancora di cominciare a combattere, quasi rassegnato al dolore e alla sconfitta. Anche i suoi lazzi velenosi sono meccanici e ripetitivi, come quelli di un guitto ormai rinunciatario, perfido più per programma che per convinzione. Sul piano vocale mostra uno strumento robusto e insieme duttile, capace di onorare ogni esigenza del colossale personaggio -dall’invettiva a piena voce al canto sfumato- usando la giusta varietà ed intensità di fraseggio, di colori e di intenzioni interpretative.
La sua Gilda è il soprano palermitano Désirée Rancatore, che sembra aver ormai consegnato all’album dei ricordi la sua straordinaria Olympia de “I racconti di Hoffmann”, in cui si è affermata giovanissima come soprano di coloratura di assoluto valore. Se le agilità, infatti, sono sempre limpide, gli acuti lucenti, l’emissione pulita, il timbro amabile, la dizione perfetta, la voce ha acquistato polpa e spessore e il fraseggio possiede l’intensità richiesta dal ruolo. La sua Gilda, quindi, risulta ammirevole sotto ogmi punto di vista, anche perché l’artista la affranca dal clichè romantico della fanciulla angelicata, per farne una ragazza semplice e sincera, ingannata perché il mondo è effettivamente spietato e non rispetta i sentimenti umani.
Il tenore USA Eric Cutler è un Duca di Mantova dagli apprezzabili mezzi di schietto tenore lirico, anche se la sua prestazione vocale acquista la necessaria franchezza ed incisività solo nel terzo atto, mentre prima sembra giocata un po’ troppo sulla difensiva.
Impeccabile lo Sparafucile del basso parmigiano Marco Spotti, secondo il rendimento consueto cui ci ha abituato questo ottimo artista. A posto vocalmente la Maddalena del mezzosoprano Anna Malavasi, anche se, nonostante la mise sexy per la quale viene rumorosamente applaudita, è parsa poco convinta sulla scena. Corretto ma in difetto di potenza il Monterone del basso bergamasco Alberto Rota. Inappuntabile lo schieramento dei comprimari, fra i quali alcuni di casa alla Fenice, come Armando Gabba (Marullo), Iorio Zennaro (Borsa), Luca Dall’Amico (Ceprano). Bravissimi orchestra e coro del teatro, quest’ultimo preparato da Claudio Marino Moretti, nel conferire corposa sostanza sonora alle intenzioni interpretative di Chung.
La messa in scena è dovuta all’impegno congiunto di Daniele Abbado (regista con la collaborazione di Boris Stetka), Alison Chitty (scene e costumi), Simona Bucci (coreografia), Valerio Alfieri (luci). E’ un allestimento non privo di fascino, dato da una certa atmosfera fra l’onirico ed il surreale che sprigiona soprattutto dalle scene di assoluta essenzialità; queste rischierebbero di ricordare un garage sotterraneo se non fossero trasfigurate dall’eccellente gioco di luci e trasformate così in un ambiente astratto, che richiama le architetture misteriose e senza tempo della pittura metafisica di De Chirico.
In questa cornice stonano gli sparsi riferimenti realistici, come quelli ormai scontati e alquanto goffi all’erotismo del Duca e della sua corte; oppure, mentre Monterone scaglia la sua maledizione, la presenza della figlia sfatta dalla violenza subita (ma il Duca non è colui che prende con la seduzione anziché con la forza? A mano che qui non si alluda ad una violenza di gruppo perpetrata negli ambienti di corte...). Perfetta, invece, ed emozionante, la caratterizzazione di Rigoletto, prima in smoking nero e poi in completo rosso vivo, surreale eppure dolente emblema di tutti gli sconfitti dalla vita. Azzeccata anche la definizione del personaggio di Gilda. Più convenzionali gli altri. In alcuni momenti, tuttavia, la mano del regista sembra nascondersi e abbandonare al loro destino i cantanti. Penso alla morte di Gilda, per esempio, o ad alcune fasi della scena di seduzione fra il Duca e Maddalena. Si creano, così, degli stacchi, delle soluzioni di continuità all’interno del racconto drammatico, che non scorre fluido come dovrebbe.
Alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, successo caldissimo accompagnato da dissensi per il regista.
Adolfo Andrighetti
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