Fenice: parole uccise, parole da salvare, parole da amare
E’ proprio questo il triste mestiere cui è costretto per vivere il protagonista, poeta di insuccesso e disadattato all’interno di una società razionalistica ed efficientista incarnata dalla moglie: eliminare dalla nuova edizione di un vocabolario le parole che sono cadute in disuso, come “galaverna”, la cui evocazione da parte del Killer ispira ad Ambrosini un delizioso ricamo sonoro che richiama quello che la brina intesse sui fili d’erba e sui rami degli alberi. Galaverna dovrà essere sostituita da un neologismo dagli echi sinistri: “inciucio”. Hai voglia: il Killer è tale per mestiere, ma il suo cuore batte in direzione opposta. Egli si innamora delle parole, le corteggia, le accarezza, non riesce a decidersi ad eliminarle, per cui il suo lavoro procede a rilento e quindi il rischio del licenziamento incombe su di lui. Dovrebbe fare come il Collega, che ostenta un cinico decisionismo nella mattanza delle parole obsolete e intanto gli concupisce la moglie, attratta da quella virile risolutezza che tanto poco assomiglia all’incertezza esistenziale del Killer. Questi, invece, è a tal punto preso dalla sua stravagante passione da vivere un vero e proprio sogno erotico con una Parola Uccisa, che gli rinfaccia di averla eliminata nonostante la passione che li univa, mentre anch’egli ricorda i bei momenti passati insieme.
E’ quanto succede, più o meno, nel primo atto del “ludodramma”, così chiamato dal compositore perché dal comico vira poi al drammatico, “Il killer di parole”, che la Fenice ha commissionato a Claudio Ambrosini continuando la sua apprezzabilissima politica di sostegno ad un teatro in musica che non sia solo ripetizione di titoli del passato ma anche esperienza culturale dell’oggi. Un primo atto tutto giocato sui toni del grottesco, anche se il recitativo spezzato, artificioso, spesso bizzarramente ornato, con cui si esprimono i personaggi, non sembra sostenere con la necessaria efficacia ed espressività le intenzioni del compositore. La struttura del libretto, poi, costruita prevalentemente su di un periodare prosaico e colloquiale, pare adattarsi con fatica alla frase musicale, come se la parola inseguisse la nota senza mai riuscire a raggiungerla del tutto o cercasse con essa un’ardua combinazione.
La scena, di Nicolas Bovey, è un cubo che raffigura l’abitazione del Killer e che, su di un fondale completamente nero, ruota su se stesso, a rappresentare l’incertezza della realtà, domestica e professionale, in cui il personaggio deve vivere. All’interno di questa cornice, astratta e pertinente alle caratteristiche dell’opera, domina il Killer del baritono romano Roberto Abbondanza, per la voce bella, rotonda, timbrata, non frequente in questo repertorio ma comunque benvenuta, visto che il canto è sempre il canto oggi come ieri, e per la capacità di immedesimarsi nel personaggio infondendogli vita e credibilità. Accanto a lui, il bravo soprano Sonia Visentin è Moglie perfetta per il fisico del ruolo e anche certi suoni asprigni e stiracchiati in alto (ma quanto è impegnativa la sua parte!) si confanno al carattere di questa sgradevole donna in carriera che bada al sodo. Un più consistente volume sonoro, però, sarebbe necessario. Tutti teatralmente a fuoco comunque i personaggi, anche quelli minori, grazie certamente all’apprezzabile disponibilità degli interpreti, ma in primo luogo al buon lavoro della regia di Francesco Micheli, che conferisce a ciascuno una personalità specifica messa nella giusta evidenza.
Il secondo ed ultimo atto è ambientato venticinque anni dopo. Il Killer è stato licenziato perché manifestamente inadeguato al lavoro che gli era stato assegnato, ma, grazie al senso pratico della Moglie, ne ha trovato un altro: deve registrare le lingue che egli ritiene meritevoli di essere consegnate alla memoria della posterità, in vista della mezzanotte del nuovo anno, che segnerà l’avvento della lingua unica che sostituirà tutte le altre. All’interno di uno studio di registrazione (di nuovo complimenti allo scenografo Nicolas Bovey per la pertinenza delle scelte), il Killer riceve una serie di singolari personaggi, gli ultimi depositari di linguaggi quasi scomparsi, per verificare se meritano la registrazione. Inutile dire che il nostro non è cambiato nonostante gli anni trascorsi e quindi si innamora di ogni più astruso borborigmo che gli tocchi udire, mentre la mezzanotte fatale, che segna l’avvento della lingua unica, si avvicina sempre più ed egli si rende conto che non riuscirà ad ascoltare né a conservare tutti gli infiniti linguaggi che animano il mondo. Tocca alla Moglie, con il suo consueto e brutale pragmatismo, ricondurlo alla realtà: ciò che sta portando a termine il Killer non è una missione di civiltà di incommensurabile importanza, come egli pensa, ma soltanto un gioco. Infatti, nessuno ha mai creduto all’utilità del suo lavoro e ogni mattina gli è stato consegnato sempre lo stesso nastro, su cui lui ha continuato ad incidere cancellando ogni volta quanto aveva registrato il giorno prima. Il finale è amaro: messo di fronte all’inutilità del suo lavoro, il Killer convoca tutti gli Ultimi Parlanti delle lingue sconosciute per un ultimo concerto d’addio, quasi un canto del cigno prima dell’estinzione, mentre la Moglie, soddisfatta, batte gli ultimi secondi che separano dalla mezzanotte e dall’avvento della lingua unica.
In quest’atto la musica sembra prendere quota e guadagnare in varietà e forza comunicativa. Il suono si addensa in nuclei più corposi. La felice invenzione di far ascoltare il canto di alcune remote popolazioni (del tutto di fantasia l’uno e le altre, naturalmente) per registrarlo a futura memoria, permette al compositore di dare vita a dei singolarissimi e straordinari giochi vocali, affidati prima a dei solisti e poi al coro, su fonemi privi di significato, che però, sapientemente armonizzati, formano un caleidoscopio rutilante di colori. Complimenti a chi li ha eseguiti, dopo averli memorizzati alla perfezione. Sono costoro, gli Ultimi Parlanti delle lingue più peregrine del pianeta, i protagonisti del secondo atto, anche nel loro pittoresco succedersi sul palcoscenico, cui dà un decisivo contributo di simpatia e di colore l’ottimo lavoro del costumista argentino Carlos Tieppo, mentre si conferma la mano felice del regista Francesco Micheli.
Resta da dire dell’eccellente prestazione di tutti gli interpreti, uniti dal desiderio di impegnarsi e di fare bene alle prese con una partitura difficile da memorizzare e da eseguire: il direttore e concertatore Andrea Molino, bravissimo a tenere in pugno con saldezza tutto l’insieme; l’orchestra della Fenice, che lo ha ben assecondato; il coro diretto da Claudio Marino Moretti; l’intera compagnia di canto, che, oltre ai già citati Roberto Abbondanza e Sonia Visentin, annovera il tenore Mirko Guadagnini (Figlio del Killer), il basso Gianluca Buratto (Collega e Ultimo Parlante Vecchio), il soprano Valentina Valente (Parola Uccisa, Fotografa, Ultima Parlante Giovane), il mezzosoprano Damiana Pinti (Giornalista, Ultima Parlante delle paludi).
Successo di stima alla pomeridiana cui si riferiscono queste note, in un teatro con alcuni vuoti rispetto alla programmazione tradizionale ma neanche poi troppi.
Adolfo Andrighetti
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