Fenice: che all’uomo un aiuto sia l’uomo
L’iniziativa della Fenice, sostenuta dalla casa editrice Marsilio per festeggiare i cinquant’anni della sua fondazione, appare importante, quindi, in primo luogo sul piano culturale, perché ripropone nella lingua in cui fu originariamente concepita un’opera artistica di indubbia valenza nella storia del teatro musicale d’avanguardia dello scorso secolo; e ricostruendo così anche un pezzetto non trascurabile della storia del primo teatro veneziano, quando alla novità e alla caratura ideologica della proposta una parte del pubblico reagì in maniera aggressiva, finendo per aggiungere un ultimo anello alla catena di episodi di intolleranza raccontati da Nono nel suo lavoro.
Oggi i tempi sono cambiati e non si corre più il rischio che un evento culturale venga disturbato o addirittura interrotto perché troppo marcato “a sinistra”. Del resto, a distanza di cinquant’anni, la forza provocatoria della proposta di Nono risulta molto attenuata; quasi un capo di modernariato, con il messaggio politico incorporato, la musica programmaticamente ispirata alla dodecafonia del suocero Schoenberg cui “Intolleranza 1960” è dedicata, la concezione del fatto artistico come veicolo per la proclamazione di un’ideologia.
Abbinare “Intolleranza 1960” al centocinquantenario dell’unità d’Italia, quindi, può sembrare un’idea azzardata. Ma, a ben guardare, non lo è. Si può sostenere che è un modo non trionfalistico ma problematico di celebrare la ricorrenza, ricordando come ogni evento storico nasconda, dietro una facciata spesso rutilante di retorica, la sofferenza degli umili perseguitati in nome dell’una o dell’altra ideologia, dell’uno o dell’altro ideale supremo. Questo, al di là degli eccessi partigiani di un’arte concepita come militanza politica, sembra il lascito meno effimero del lavoro, il cui testo fu scritto dallo stesso Nono rielaborando fino a stravolgerla una proposta dello slavista Angelo Maria Ripellino, attraverso l’inserimento di un florilegio di citazioni di varia fonte: Brecht, Sartre, Majakovskij, ma anche verbali di interrogatori della polizia nazista.
“Intolleranza 1960” racconta il percorso simbolico di un minatore emigrato che decide di ritornare in patria per ritrovare la propria umanità e la propria libertà. Il suo viaggio iniziatico si rivelerà una via crucis, che lo condurrà, attraverso alcune stazioni della violenza politica rappresentate dalle repressioni della polizia, dalla ferocia del nazismo, dalla guerra franco-algerina, dall’oppressione burocratica presente nella vita quotidiana, alla catarsi della morte, incontrata durante la tragedia collettiva dell’alluvione in Polesine. Resta la certezza, come scrive Nono, “nell’ora che all’uomo un aiuto sia l’uomo”. La conquista della libertà, insomma, si paga con la sofferenza e addirittura con la vita, ma rimane comunque il segno di una speranza superiore anche se non trascendente, rappresentata da una ritrovata capacità umana di solidarietà e di condivisione.
Lo spettacolo della Fenice, poi, veramente ben riuscito e degno dell’inaugurazione della stagione, aiuta, con la sua asciutta severità, a depurare il lavoro di Nono da quanto di programmatico, di ideologico e quindi di caduco porta con sé. Certo, non quando in palcoscenico si levano i pugni chiusi a salutare il pubblico. Ma, in generale, la scabra eppure eloquente regia espressionista, la nudità stessa dell’allestimento, il grigiore da uomo qualunque dei costumi, aiutano l’emergere di una visione più ampia ed universale, ove ritroviamo la pietas nei confronti dei vinti di ogni epoca e l’anelito alla libertà e alla solidarietà come tensione perenne dell’uomo. Promossa a pieni voti e con la lode, quindi, la Facoltà di design e arti dello IUAV di Venezia, cui la Fenice, secondo un’apprezzabilissima prassi, ha affidato l’intero allestimento in uno con i loro tutors: Luca Ronconi, Franco Ripa di Meana, Margherita Palli, Vera Marzot, Gabriele Mayer, Claudio Coloretti, Alberto Nonnato, Luca Stoppini.
La superba realizzazione musicale è determinante per decantare un materiale drammaturgico di per sé datato. Il magma sonoro di indubbia efficacia creato da Nono, ove veementi scosse di tellurica potenza si alternano a momenti di sospensione segnati da un’improvvisa discrezione sonora, ha trovato alla Fenice interpreti impeccabili: il maestro concertatore e direttore Lothar Zagrosek, padrone assoluto di una partitura intricata e complessa; una smagliante orchestra della Fenice, collocata in fondo al palcoscenico su tre piani costruiti con tubi innocenti; il coro del teatro, istruito da Claudio Marino Moretti, sistemato nella buca dell’orchestra, che ha interpretato in maniera emozionante la parte, ora lirica ed ora epica, che gli assegna Nono e che è la più riuscita dell’opera; i solisti, alle prese con gli inani e monotoni saliscendi sul pentagramma imposti dalla partitura, che hanno dimostrato straordinaria saldezza vocale, sicura musicalità, eccellente immedesimazione nei rispettivi ruoli.
Sopra tutti il tenore tedesco Stefan Vinke, Un emigrante di sofferta partecipazione emotiva, impavido negli acuti, mai uno slittamento nell’intonazione grazie ad un’emissione sempre tenuta saldamente sotto controllo. Altrettanto bravi i due personaggi femminili: Una donna, il mezzosoprano inglese Julie Mellor, presenza femminile soffocante e violenta; e La compagna, il soprano austriaco Cornelia Horak, a fianco dell’Emigrante nelle fasi conclusive della sua vicenda terrena. E ancora gli ottimi Un algerino e Un torturato rispettivamente del baritono pisano Aessandro Paliaga e del basso svizzero Michael Leibundgut. Da lodare, infine, la regia del suono di Alvise Vidolin, responsabile delle parti registrate.
Successo molto cordiale, inusitato per questo tipo di repertorio, ad uccidere l’ultimo luogo comune che rimane nel mondo dell’opera e cioè che il pubblico delle pomeridiane sia poco ricettivo e tradizionalista.
Adolfo Andrighetti