Fenice: in una zimarra la giovinezza che passa
Ci sono quattro ragazzi, che vivono a Parigi trascinati dal sogno di diventare qualcuno nel campo dell’arte o della cultura. La metropoli, si sa, è vivacissima, generosa di incontri ed occasioni di ogni tipo, e i ragazzi vi si gettano a capofitto, inebriati da quell’atmosfera in cui la vita ti viene incontro a ondate e tutto sembra poter succedere da un momento all’altro. Indispensabile spezia di un’esistenza così eccitante è l’amore, talvolta consumato in fretta, talaltra vissuto con autentico sentimento, con passione bruciante.
E sarà proprio l’amore, non la pancia vuota o riempita in modo irregolare, non il gelo degli inverni parigini, neppure gli scarsi successi professionali, a far uscire i quattro giovanotti dalla loro condizione di goliardi scanzonati per calarli nella realtà; l’amore come esperienza totalizzante, che unisce il destino di due persone in una simbiosi di sentimenti e di vita che non può essere a costo zero. E’ ciò che Rodolfo rimpiange nel verso citato all’inizio, pur consapevole che un amore così intenso, con la sofferenza che inevitabilmente porta con sé, segna la fine dell’età spensierata, della libertà spudorata, del prendere e dare senza rimorso. La “breve gioventù” di Rodolfo si conclude definitivamente con la morte di Mimì, ma già sbiadiva per le difficoltà del rapporto con la ragazza: la gelosia, i tradimenti veri o presunti, le faticose riconciliazioni, il dividere la vita e quindi soffrire per ciò che l’altra fa e soffre.
Puccini si trova totalmente a proprio agio nel rivestire di note questa vicenda, sospesa fra scherzo, sentimento e dramma, e ce la restituisce in tutta la sua freschezza: un sogno di gioventù in cui la realtà guadagna sempre più spazio fino al duro risveglio. L’invenzione melodica, genialmente rispondente alle situazioni, alle psicologie dei personaggi ed alle stesse singole espressioni verbali, si espande su di un tessuto orchestrale vivido, mobile, continuamente cangiante, ad assecondare il vitalismo dei bohemien ed il ritmo serrato con cui si succedono gli eventi.
Il resto lo fanno i due librettisti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che ricavano, dai bozzetti sparsi e poco legati fra loro che costituiscono il romanzo ottocentesco “Scene della vita di bohème” di Henri Murger, una trama organica e compatta, versificata con una disinvoltura ed un’agilità figlie della fatica e dello studio. Così, da questa irripetibile alchimia di elementi favorevoli, sboccia non un’opera lirica, per quanto celebre, anzi leggendaria, ma una categoria dello spirito: la giovinezza che, inconsapevole di sé, prima fiorisce e poi sfiorisce nella maturità.
Il passaggio tra illusione e disillusione, fra spensieratezza e responsabilità, che rappresenta il nucleo del dramma pucciniano, non si coglie a sufficienza nel pur piacevole spettacolo in scena in questi giorni alla Fenice, dovuto alla regia di Francesco Micheli, che ha firmato nella scorsa stagione “Il killer di parole”, alle scene di Edoardo Sanchi, ai costumi di Silvia Aymonino, alle luci di Fabio Barettin; uno spettacolo che, ambientato fra ‘800 e ‘900, sembra evitare il realismo per virare verso atmosfere in bilico fra il giocoso ed il surreale, fra la fantasia infantile e l’onirico. Nel primo quadro, un arabesco di luci al proscenio, con cui sono disegnati i principali monumenti di Parigi, contrasta con il realismo della soffitta dei bohémien, descritta secondo i canoni tradizionali. E’ la stessa cortina luminosa che cala sul palcoscenico alle ultime note dell’opera: un effetto giocoso, perfino chiassoso, che mette un suggello straniante sul dramma così vero di Mimì, Rodolfo ed i loro amici. La scena del Quartiere latino, poi, con i suoi costumi sgargianti e le sagome degli edifici decorati con le insegne di famosi locali parigini, ha il profumo delle illustrazioni di vecchi libri per l’infanzia; qui non solo il dramma ma la stessa vita reale sono tenuti ben lontani e il diverbio fra Musetta e Alcindoro ha il gusto, peraltro molto gradevole, di un siparietto in una farsa d’antan. La scena della barriera d’Enferre, con la neve che scende morbida sulle vesti delle lattaie e le divise dei finanzieri, mi ha ricordato quelle illustrazioni a colori di libri per ragazzi che venivano inserite fuori testo e descrivevano con delizioso, finto realismo la Parigi de “I miserabili” o la Londra di “Olivier Twist”. Nel quarto quadro, proprio quella in cui la morte di Mimì segna la definitiva irruzione della realtà nella vita dei bohemien, l’effetto surreale è ancora più accentuato a causa soprattutto delle silhouette di tetti che si vedono sul fondo e che, illuminati con colori netti e vivaci, mi hanno ricordato gli effetti coloristici di certi vecchi cartoni animati di Bruno Bozzetto.
Scene e costumi, del resto, risultano in perfetta sintonia con la regia, che ha lavorato molto e anche bene sui singoli personaggi, caratterizzandoli come si conviene e conferendo loro una vivacità che a tratti sconfina nella frenesia. Alcune trovate sono apparse discutibili, come far cantare a Musetta il suo valzer “Quando me’n vo soletta per la via” in mezzo ad altre sciantose. Certo l’occhio è appagato da una scena gremita e colorata, ma non va dimenticato che, in quel momento, Musetta è il centro erotico di quel mondo che si è radunato lì, al caffè Momus, per festeggiare la vigilia di Natale, e l’attenzione dello spettatore deve essere concentrata su di lei come quella di Marcello e degli altri avventori del locale. Anzi, in linea con quella atmosfera da café chantant, che la scena può suggerire, potrebbe essere un’idea azzeccata quella di isolare Musetta, durante l’esecuzione del suo pezzo, con un occhio di bue, a sottolineare che, se ci sono tante ragazze a Parigi, la prima donna indiscussa, il simbolo erotico, in quel momento è Musetta, perché così i presenti la vedono e, cosa non meno importante, così lei stessa in quella situazione si percepisce.
La simpatica messinscena, per quanto singolarmente spiazzante rispetto al realismo de “La boheme”, costituisce la componente più interessante dello spettacolo in scena alla Fenice, in quanto la parte musicale, pur con tutta l’indulgenza e l’incoraggiamento dovuti al giovane cast, non si può dire abbia brillato in modo particolare. Bene, nel complesso, la Mimì del soprano coreano Lilla Lee, grazie ad un timbro rotondo e caldo e alla sicura impostazione, che le consente un’emissione morbida e omogenea. Certo l’interpretazione è altra cosa e il personaggio, in tutto il suo complesso mix di tenerezza, malizia, abbandono, senso della morte, si intuisce solo a tratti.
Marcello è un altro coreano del Sud, Seung-Gi Jung, che abusa della sua sana e robusta voce baritonale con un’emissione greve e stentorea, che dovrebbe invece essere più spesso alleggerita alla ricerca di quella varietà di sfumature e di colori, che il canto di conversazione impone. Lo strumento massiccio e poco duttile, poi, di difficile amministrazione, gli crea di tanto in tanto qualche problema d’intonazione.
Il Rodolfo del tenore francese Sébastien Guèze è penalizzato da un timbro agro, in difetto di morbidezza e rotondità. L’emissione talvolta incerta e oscillante lo perdona quando può spiegare la voce negli involi melodici, non nel canto di conversazione, croce e delizia degli interpreti pucciniani, ove fraseggio e dizione si rivelano inadeguati.
Luca Dall’Amico è un Colline simpatico e ben cantato. Peccato che “Vecchia zimarra” risulti troppo querula, priva di quella fiera dignità che è la cifra del personaggio e, mi sembra, anche del pezzo.
La Musetta del soprano russo Ekaterina Sadovnikova è convincente nel versante brillante, meno in quello serio.
Tutti bravi, comunque, i giovani artisti sul palcoscenico, affiatati, disinvolti, impegnatissimi nel conferire vitalità e credibilità ai rispettivi personaggi.
Del tutto a posto nei loro ruoli Armando Gabba come Schaunard, Matteo Ferrara come Benoit, Andrea Snarski come Alcindoro.
Il trentacinquenne direttore e concertatore Juraj Valčhua, di Bratislava, sa conferire una coerenza sinfonica complessiva all’insieme, anche se alcuni momenti risultano troppo enfatizzati sul piano dinamico, al punto da costringere o da indurre i cantanti ad eccedere nei decibel. Molto applauditi il coro del Teatro diretto da Claudio Marino Moretti e i Piccoli Cantori Veneziani istruiti da Diana D’Alessio. Alla domenicale cui si riferisce questa recensione successo caloroso, come si addice ad un’opera di così vasta popolarità.
Subito prima dell’inizio è stato letto un comunicato in cui i lavoratori della Fenice esprimono tutta la loro preoccupazione per la gravissima situazione finanziaria, che rischia di compromettere l’attività delle Fondazioni liriche italiane e di mettere in pericolo molti posti di lavoro. La loro preoccupazione è quella di tutti coloro che amano l’opera e con convinzione viene accolta anche in questa sede. Ciò che sembra ancora mancare, in effetti, è una politica che sappia accompagnare il rigore con il rilancio, dando ai Teatri delle prospettive magari severe ma comunque accessibili. Tagliare non basta, bisogna anche saper incentivare le gestioni sane e lungimiranti, per segnare una svolta rispetto ad un passato non sempre encomiabile sotto questo profilo ma senza affossare un’espressione artistica e culturale che l’Italia ha il vanto di aver creato e donato al mondo intero.
Adolfo Andrighetti
Asterisco Informazioni
di Fabrizio Stelluto
P.I. 02954650277
- e-mail:
- info@asterisconet.it
redazione@asterisconet.it - telefono:
- +39 041 5952 495
+39 041 5952 438 - fax:
- +39 041 5959 224
- uffici:
- via Elsa Morante 5/6
30020 Marcon (Ve)
Cartina
Questo sito è aperto a quanti desiderino collaborarvi ai sensi dell'art. 21 della Costituzione della Repubblica italiana che così dispone: "Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione".
La pubblicazione degli scritti è subordinata all'insidacabile giudizio della Redazione; in ogni caso, non costituisce alcun rapporto di collaborazione con la testata e, quindi, deve intendersi prestata a titolo gratuito.
Notizie, articoli, fotografie, composizioni artistiche e materiali redazionali inviati al sito, anche se non pubblicati, non vengono restituiti.
-
Direttore:
Fabrizio Stelluto -
Caporedattore
Cristina De Rossi -
Webmaster
Eros Zabeo -
Sede:
via Elsa Morante, 5/6
30020 Marcon
Venezia - Attiva i cookies
- Informativa cookies