Alla Fenice Rigoletto come un vecchio clown stanco
Al di là dei rapporti fra arte e vita, tanto suggestivi quanto insidiosi da scandagliare per il rischio di stabilire collegamenti fantasiosi se non arbitrari, resta il fatto che la galleria di ritratti verdiana è gremita dalla presenza di figure paterne spesso di notevole spessore drammatico e musicale. Si incomincia con il protagonista dell’opera di esordio, “Oberto conte di San Bonifacio” e si conclude con l’Amonasro dell’”Aida”. Nel mezzo una sequenza che comprende anche il protagonista del primo, clamoroso successo verdiano, cioè “Nabucco”, e alcuni personaggi indimenticabili come il doge Francesco ne “I due Foscari”, Guido di Monforte nei “Vespri siciliani”, Filippo II in “Don Carlos”.
Ma il padre più complesso e affascinante rimane Rigoletto. In primo luogo, perché in lui convivono due personalità tra loro inconciliabili, quella del cortigiano, abietto consigliere di ogni nequizia, e quella del genitore amorevole. Inoltre, perché anche il sentimento “buono”, quello che lo lega alla figlia, è tutt’altro che limpido.
Rigoletto, infatti, appare ossessionato dalla illibatezza della ragazza, che costringe ad un vita da reclusa consentendole solo di recarsi in chiesa, il luogo per antonomasia privo di ogni sottinteso sessuale. Nella scena con Gilda del I Atto si mostra addirittura terrorizzato all’idea che qualcuno possa avvicinarla con intenti passionali. E le parole con cui si rivolge nella cabaletta alla serva Giovanna (“Veglia, o donna, questo fiore che a te puro confidai, veglia attenta e non sia mai che s’offuschi il suo candor ecc.”) su di una melodia colma di un’apprensione struggente, precedute e seguite da brevi, inquiete frasi spezzate (“La porta che dà al bastione è sempre chiusa...Bada, dì il vero...Vi seguiva alla chiesa mai nessuno...Bada, dì il vero...”), danno proprio il senso di un amore troppo grande, troppo esclusivo per non essere destinato a soffocare e infine a distruggere colei che ne è l’oggetto. Perché responsabile della morte della ragazza non è il Duca, per il quale lei sacrifica la vita, o Sparafucile, che la uccide materialmente, ma il padre, che trasforma la propria ossessione per la purezza della figlia in un’altra ossessione, quella della vendetta nei confronti di chi ha compiuto il sacrilegio.
Si può dire, insomma, che Rigoletto proietta sulla figlia, che non per niente nel dramma di Hugo si chiama Bianca, il proprio bisogno di purezza e di onestà, coltivato e protetto gelosamente come un fiore di serra all’interno di un’esistenza da giullare maligno di una corte depravata; quella stessa aspirazione che aveva già proiettato sulla defunta madre di Gilda (v. lo struggente cantabile “Deh non parlare al misero...”) e che ora concentra sulla povera ragazza, cui è negata un’esistenza normale perché, nell’immaginario di Rigoletto, rappresenta l’incarnazione di quell’ideale superiore di innocenza cui egli anela e che gli è impedito dalle impietose circostanze della vita. Un amore mostruoso, patologico se vogliamo, questo di Rigoletto, il personaggio che Verdi forse amava più di ogni altro, ma anche grandioso e commovente, per una assolutezza di sentimenti che lo fa assomigliare ad una devozione religiosa.
Accostarsi ad una personalità così complessa e imponente è impresa ardua anche per l’interprete più esperto e sensibile. Roberto Fontali, in scena alla Fenice, possiede entrambe queste qualità e il suo Rigoletto, provato fisicamente prima ancora che moralmente, il passo strascicato, addosso la stanchezza di una vita, rappresenta una delle caratterizzazioni fra le più riuscite e toccanti di quelle viste in questi anni sul palcoscenico veneziano. L’interpretazione vocale, poi, si fa forte di uno strumento saldo e sicuro anche se non bellissimo di timbro, per raggiungere risultati emozionanti nella declamazione sofferta, nello scavo di certe frasi sussurrate, quasi smozzicate, a fare di questo vecchio clown minato dal dolore e dall’età una sorta di Wozzeck ante litteram, immagine di tutti i vinti del mondo e della storia.
Gli fa da spalla, con grande e meritato successo, la Gilda tenera e freschissima del soprano Gladys Rossi, che ha voce piccolina ma intonatissima ed espressiva, capace di correre e risuonare per tutto il teatro a dimostrazione di un’impostazione tecnica impeccabile. E poi, che bella dizione.
Il tenore georgiano Shalva Mukeria conferisce al Duca di Mantova non l’aspetto del seduttore impenitente ma almeno una voce di smalto prezioso, pronta ad espandersi luminosa e scintillante salendo verso l’alto. Da rivedere, però, l’organizzazione dei fiati, che non sempre sostengono adeguatamente le frasi fino in fondo.
Il basso Gianluca Buratto è uno Sparafucile inquietante e tenebroso, di eccellente levatura artistica, nei dialoghi con Rigoletto, quando non forza l’emissione e ci regala sonorità controllate, timbratissime ed intonate come raramente capita di sentire nelle interpretazioni di questo ruolo, troppo spesso afflitte da suoni catramosi ed impastati. Nella scena con Maddalena, invece (di bella presenza ma vocalmente flebile il mezzosoprano Daniela Innamorati), cerca facili effetti, accenti esageratamente bruschi e risonanze caricate, per cui diventa una sorta di Mangiafuoco, più ridicolo che allarmante.
Adeguato il Monterone del basso Alberto Rota, vocalmente più autorevole dell’anno scorso. Ed eccellente il trio dei cortigiani, affidato come sempre ai collaudati Armando Gabba (Marullo), Iorio Zennaro (Borsa), Luca Dall’Amico (Ceprano).
Il vero trionfatore della serata va considerato però il maestro concertatore e direttore Diego Matheuz, venezuelano di 26 anni, figlio spirituale ed artistico di José Antonio Abreu, il musicista che dal 1975 offre un’occasione di riscatto ai ragazzi venezuelani meno fortunati facendoli studiare musica gratuitamente e inserendoli nel sistema di orchestre giovanili da lui creato. Matheuz è la prova vivente che l’ammirevole iniziativa di Abreu è in grado di produrre effetti benefici di tipo non solo umanitario ma anche artistico. Il giovane maestro, infatti, che in Rigoletto è alla sua prima e per il momento unica prova operistica avendolo debuttato lo scorso anno alla Fenice, è protagonista di una prestazione eccellente, che sa conferire vitalità e forza espressiva ai dettagli ed in particolare agli accompagnamenti pur all’interno di una visione complessiva unitaria e coerente. Matheuz, inoltre, dimostra quella sensibilità verso il palcoscenico che è indispensabile per dirigere l’opera, soprattutto quella italiana..
Lo spettacolo di Daniele Abbado (regia, con la collaborazione di Boris Stetka), Alison Chitty (scene e costumi), Simona Bucci (coreografie), Valerio Alfieri (luci), già visto lo scorso anno, conferma i suoi difetti ma anche il suo fascino. Lugubre e minimalista, oppressivo, ci racconta di un universo dove la speranza è finita e con essa la luce che illumina la vita umana sottraendola all’angoscia.
Al termine, successo entusiasta per tutti
Adolfo Andrighetti